Mario Merola non è più tra noi. Sembra una frase fatta ma è l’esatta sottolineatura di una mancanza che oggi come oggi, pesa in maniera grave alla città. Pesa non solo per i problemi del nel capoluogo partenopeo che viene a perdere una delle poche cose che brillavano nel suo firmamento azzurro e spesso nebbioso; ma soprattutto per quella legge della natura che man mano che il tempo avanza, toglie alla storia, all’arte ed alla cultura i pezzi migliori, titolari di una cattedra speciale che ha insegnato tra la metà del novecento e l’inizio del nuovo secolo, il sentire dell’uomo semplice che deve sbarcare il lunario per sfamare la propria famiglia. Nel caso di Mario Merola, il riferimento va soprattutto all’emigrante, personaggio tanto rappresentato nelle sue canzoni e anche nei suoi film; un ruolo che oggi forse è un po’ dimenticato perché nel lessico cogente si specchia in realtà inverse, in coloro che sbarcano sulle nostre coste per sfuggire alle distruzioni nella loro madrepatria perpetrate da regimi a noi tutti noti. Ma se facessimo una ricerca genealogica della nostra famiglia, sicuramente una grossa percentuale di noi ritroveremmo parenti stretti che per quasi tutto il secolo scorso, sono partiti per cercare altrove, in Europa o soprattutto, in America, quel pezzo di pane che in Italia non si è mai potuto assicurare. Stiamo infatti a navigare tra mille problemi e mille soluzioni per migliorare la viabilità di un’esistenza, senza renderci conto che il problema è uno solo: il lavoro. Quella fetta di azzurro, allora, che è andata via è proprio quella capacità di mettersi un fardello sulle proprie spalle, salutare gli unici che veramente ci vogliono bene e raggiungere il primo, ma lontano, luogo dove realizzare il proprio fabbisogno: un sacrificio che molti a Napoli non sanno neanche cosa vuol dire, anche se canticchiano le sue canzoni o si guardano ancora i suoi film strappalacrime. I figli sono “ piezz’e core “ come soleva affermare Mario, ma non sta a me giudicare se da questo si può arrivare a difenderli, nei vicoli e nei palazzi, quando questi sono autori di efferati delitti e vengono rincorsi dalle forze dell’ordine fino alle loro dimore, per essere poi respinti dalle reciproche madri e parenti con tutto ciò che questa gente ha, nella disperazione, a disposizione, come sedie, scope e oggetti domestici. Sono immagini violente di una città, che non ha la garanzia del lavoro e non riesce più a fare affidamento alla proprio spirito di rinuncia, in una società che ci ha abituato a lasciare correre troppe cose per vivere comodamente, compresa la stessa legge e la certezza di un diritto, che non può prescindere dalla certezza della pena. Sono immagini che leggo spesso, riportate nelle cronache oscure dei giornali, ma, proprio nel momento in cui vengono a mancare i veri riferimenti come anche l’esempio e l’onestà di Mario Merola, mi vengono in mente quelle dei suoi film, nei quali si ripetevano le scene dell’emigrante che lascia il suo nido e prima di partire, laconicamente, volge il suo sguardo, forse per l’ultima volta, prima alla sua casa e poi al cielo, dove c’è l’azzurro di Napoli, che un tempo dava la forza di credere partendo proprio da una positività tutta partenopea. Un’ottimismo che però era stato costruito con il sacrificio, con la speranza, con l’artigianalità delle soluzioni alle quali spesso si è costretti a doversi appoggiare e perché no, anche con un pò di nobiltà che sta sempre dietro ogni cuore che è pronto a rinunciare a se stesso per gli altri. Questa è l’immagine che lascia Mario Merola, l’altra, la realtà, è quella fetta di azzurro che gli appartiene per averla guardata troppe volte senza che nessuno lo capisse veramente e che adesso è andata via con lui, e sicuramente e giusto così, anche se a Napoli farà un po’ più buio se non cambiano le cose.
Bruno Russo
Fonte: Bruno Russo