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28/01/2012 ARTICOLI  
Bruno Russo- [ ATTUALITA' ] IL RICORDO NON DEVE MORIRE ( da "IL MATTINO" del 28/01/2012 pag. 22 )
“Sono passati già più di cinquant’anni. Il cuore ha dimenticato molto, soprattutto luoghi, date, nomi di persone, ma malgrado ciò sento quei giorni con tutto il mio corpo. Ogni volta che piove, fa freddo o soffia un forte vento, torno nel ghetto, nel campo di concentramento o nel bosco dove ho trascorso molti giorni. A quanto pare la memoria ha radici profonde nel corpo. A volte bastano l’odore del fieno che marcisce o il grido di un uccello per trascinarmi lontano e dentro di me”: una delle tante testimonianze, mischiate nel mucchio, come quei corpi le cui fotografie non sono bastate a lenire un fuoco profondo, immenso, che arde quando un popolo è reo di qualcosa”: frasi che appartengono alla miriade di blog su Internet che offrono la testimonianza di coloro che ci sono passati, a pochi giorni dall’evento del ricordo: 27 Gennaio.
Le celebrazioni e le frasi si scontrano con la cronaca che ci porta tutti con il cuore, nella Palestina dove lo scontro non ha fine, e peggiora. Un film appartenente ad una serie famosa di tantissimi anni fa, “ai confini della realtà" fornisce uno spunto alla riflessione: un signore usciva da un locale si San Francisco ubriaco dopo una bevuta con amici al bar, durante la quale aveva duramente criticato gli ebrei, rammaricandosi che non fossero stati tutti sterminati da Htler. Nonostante l'alcool riusciva a mantenersi in piedi, sebbene fosse in realtà la nebbia a condurlo lontano dalla direzione del proprio naso. Ad un tratto sente un mano che gli trattiene la spalla e, prima di girarsi per vederne il volto, scorge l’insegna comparsa come per incanto, facendosi breccia tra la nebulosità. Era di uno dei più terribili campi di sterminio nazisti, e la mano apparteneva a un ss che lo avrebbe condotto in quel luogo a causa di una stella di David di carta sulla propria giacca, comparsa all’improvviso, come un gioco macabro, che spesso la vita ci può fare iniziare. Il seguito lo possiamo immaginare. La considerazione che occorre fare, è che solo passando in prima persona una tragedia del genere, si può capire il valore di un ricordo, che non ha bisogno di sforzi , ma serve come riferimento.
Ai confini della realtà ci troviamo ogni qualvolta qualcosa ci fa capire che tutto ciò che passiamo sulla terra può avere un fine preciso e incomprensibile. Alcuni preferiscono non pensarci, o criticare Israele che è nell’occhio del ciclone; ma sfuggire dal ricordo è come bere un goccio al bar per dimenticare, per confondere la propria insoddisfazione a quella degli altri; si rischia di avere la forza, che poi è eterna debolezza, di comportarsi come i tanti che quei momenti non li hanno vissuti, e che formano il disprezzo dalle proprie esperienze. E' difficile comprendere, ma per potersi muovere in questa giungla impazzita serve leggere e riflettere, sì, serve la cultura, per capire che mentre in Europa si formava la grande Germania, l’economia era in mano agli ebrei in quanto più abili, efficienti, competenti e anche fortunati. Basterebbe leggere le opere di Kafka per sapere quanti soldati tedeschi si innamoravano delle belle donne ceche di etnia ebrea, quanti ebrei non si potevano sopportare tra di loro: un giogo che poteva finire solo quando tutto sarebbe confluito in mano ad uno sciagurato.
Allora, forse, qualcuno capiva che ogni ruolo nella vita è solo una casacca provvisoria e resta impressa nel ricordo, inciso nelle frasi che internet adopera, per condurci in quei luoghi: "Ho visto un bambino al Revier, uno zingaro. Aveva forse tre anni e lo avevano ricoverato insieme con un trasporto intero di zingare per una forma rara di tifo. Le forme rare di qualsiasi malattia erano studiate e prese in considerazione. Durante la convalescenza veniva al centro della camera, tutto nudo, con una collana di medagliette al collo e cantava e ballava per noi, poi stendeva la manina bruna e chiedeva qualcosa: aveva fame. Aveva il viso dolce e gli occhi quasi spenti. Stava perdendo la vista, come tutte le donne del suo trasporto. Ho conosciuto un bambino al blocco 24, biondo, con la testa rapata e con un vestito che gli cadeva addosso. Aveva forse quattro anni, non parlava e non capiva nessuna lingua. Era un bambino che non aveva nome, e come noi portava un numero e un triangolo rosso – politico – sul petto. Non l'ho mai visto piangere e non l'ho mai sentito lamentarsi. Veniva all'appello e poi correva a nascondersi in blocco. Di notte si accucciava in un letto e cercava posto fra le braccia di qualcuno di noi. L'ho visto per una quindicina di giorni, poi è scomparso".

BRUNO RUSSO

Fonte: Bruno Russo
 

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