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31/10/2010 ARTIC OLI  
Bruno Russo- [ CULTURA ] IL CANTO DELLA RISCOSSA E DELL'ABBANDONO ( da "IL ROMA" del 30/10/2010 pag. 24 )
C’è tanto da dire quando si apre lo scrigno della cultura partenopea. Si
passa dalle arti alla politica e si finisce alla storia; epica, controversa ma irreversibilmente rappresentativa di un popolo che vuole il riscatto attraversol’ottimismo. Ancor prima del secolo scorso e per molti addietro, i panni sporchi erano prelevati dalle case dei signorotti e poi riportati, dopo essere stati lavati a mano.
Fino alla creazione della lavatrice, una presenza costante era la lavandaia proveniente dal contado o provincia partenopea.
Era una delle più diffuse occupazioni atte a tamponare la crisi del lavoro sempre presente, e il luogo del lavaggio doveva disporre della massima quantità di acqua. Le progenitrici in assoluto erano le cosiddette “lavandaie del Vomero” dal 1200 circa, non a caso denominate “fate” perché nell’aria amena della collina, comparivano e scomparivano tra le lenzuola bianche al vento per asciugare; in un verde
allora immenso, insieme ai castagni e ai ruscelli vomeresi tanto amati da Federico di Svevia. Tale canto è ritenuto da molti il primo esempio di canzone napoletana, ma anche il primo di contestazione contro la tirannia
aragonese, a causa di alcune frasi che inneggiano a “moccafora” o fazzoletti di terra ingiustamente depredati e legittimamente richiesti indietro.
L’ironia e la leggerezza addebitata a tale brano è a mio parere, sostituibile dalla spiritualità e dalla sensualità che il canto
adduceva all’immagine, recentemente vestita di bellezza e spirituale liricità in un film di successo, dalla nota cantante Fiorenza Calogero. Dopo il famoso ed epico canto delle sirene che ammaliò Ulisse, solo il canto delle lavandaie è capostipite della musica partenopea, prima dell’avvento delle note “villanelle napoletane” che erano tra il ‘400 e
il ‘500 canzoni di ispirazione agreste, realizzate a più voci, di aria sacrale e voce polifonica come lo stesso canto delle lavandaie. Successivamente si passò alla canzone “monodica” con l’accompagnamento
degli strumenti, che divenne la “moderna” canzone napoletana.
Ciò che può sembrare leggenda, è invece una realtà che richiama lo “spiritual” antico delle nostre parti, come un vero canto di preghiera
e di riscatto di un popolo che vuole la libertà ma è sottoposto ad abbandoni.
Parlo della Chiesa di “Santa Maria Porta Coeli e San Gennaro” definita non a caso la “Chiesa delle fate”. È una cappella piccina posta
all’Arenella nella zona della “Salita Due Porte”: due piccoli archi che si scorgono dall’apice di Via Cattaneo. Se si attraversa quello di sinistra si entra nel Vicolo delle Fate, denominato oggi Arco San Domenico. Le fate erano proprio le famose lavandaie del Vomero, maestre nel far tornare splendenti gli abiti sporchi, con cenera di legna e olio di gomito. Magiche anche per la capacità di chiedere elemosina in un periodo di grande povertà, considerando che nel 1260 circa le
popolane napoletane erano ragazze altissime e sinuose, che dai vicoli o dalle periferie, andavano solerti a sentir messa in quella cappelletta, costruita da una nobildonna puteolana. Con l’espansione della realtà
collinare, la conservazione del luogo divenne un fatto secondario: pur restando attiva fino a venti anni fa, la Chiesa delle Fate è sempre
più fatiscente, essendo preda di ladri d’arte,umidità e tarli del legno.
A mio avviso esistono leggende metropolitane che dipendono da una realtà figlia di antica sacralità e mistero proprio di un popolo oppresso dai problemi come ora, per divenire arte, come la musica napoletana apprezzata
in tutto il mondo; fermo restando che i nemici della conservazione di tal cultura, sono gli stessi che oggi fanno male alla nostra città, ovvero i gestori del cemento selvaggio.
Aiutati da una cultura che fornisce la rappresentazione vera della nostra società, dobbiamo sfruttare sempre più la capacità di noi stessi di migliorare, semplicemente imparando, curando, musicando e risolvendo
con l’ inusitata “passione” di una fata, il vicolo ove bellezza e umiltà si incontrano per sempre.
Fonte: BRUNO RUSSO
 

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