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08/08/2009 CULTURA  
Bruno Russo- MICHAEL PER SEMPRE
Come la sofferenza si può trasformare in musica, così un astro può rendere più fioca la sua lucentezza, per chi non vuole andare al fondo delle cose. E’ la parabola di Michael Jackson che ha compiuto metà del suo percorso, per continuare altrove, dove certa arte ritrova il pieno spazio per la propria essenza. Una voce che ha combattuto la sua innata timbrica da fanciullo mai cresciuto, tanto da trasfigurarsi nel mostro che cammina come uno zombie, per rappresentare ciò che i bambini si trovano di fronte. Ricordiamolo pure con “thriller”, il pluripremiato successo, ma non trascuriamo il fatto che il suo messaggio rappresenta la sfida della propria anima, della propria personalità, ad un mondo intero: la sensibilità dell’artista presenta timidamente le sensualità di un’epoca, davanti alla porta finale del tramonto perenne, come si evince dal testo di “Rock with you” o da “Rimember the time”. Il mostro è la reazione che viene fuori, come fecero anche i Pink Floyd che ad un certo punto rappresentarono nelle loro copertine, e ripetutamente, l’immagine di una bambina con una bambola in mano che diventava sempre più grande fino ad essere impossibile da trasportare, un fardello insopportabile che l’innocenza del mondo continua a tenere sul groppone. Michael Jackson è morto ma non finito, il suo insegnamento verrà fuori nel tempo, come avviene sempre, come la poesia nascosta che albera dove c’è il buio. Chi annovera la sua vita privata, gli scandali, la droga, i processi, dovrebbe sapere che la degradazione di un talento può rendere imbarazzante chi lo deve sostenere e pubblicizzare, perchè mentre il primo non riesce ad essere capito, il secondo pensa solo ai soldi. Così sembra che la sua tournee europea, il megagalattico palco per vendere le sue mosse e il suo snodarsi, servisse anche a diminuire un debito insostenibile. I migliori divi della musica possono trovare come peggior nemico, se stessi, icone di un meccanismo preconfezionato che non tiene conto dell’umano divenire dei sentimenti, non potendone fare rappresentazione alcuna. L’artista del rock trascinava il microfono fino a metterselo sotto i piedi e poi lanciarlo verso il pubblico, per denunciare che la spazzatura può venire dal proprio cavo orale, se la gente non capisce e vuole solo facili emzioni. Ad un certo punto, anche il colore del soul può essere eccessivo, fastidioso, al punto da voler diventare un bianco a tutti gli effetti, nascondendosi comunque dietro la maschera dei propri occhiali da sole, o quella bianca, portata per la paura di incontrare quasi ovunque un virus. Le manie nascono da tormenti, che a loro volto provengono da atroci verità, che solo i più sensibili possono vedere. La tristezza più grande non può che venire allora, nel sapere che tali riflessioni saranno presto sommerse dai milioni di dischi venduti, dai facili moralismi che si intersecheranno alla letteratura pietosa verso la sua vita, insieme a ecletticità peggiori delle sue imputate, come la voce che una copia di “thriller” non aperta, possa valere da domani 20000 euro. Invece Michael Jackson è uno degli artisti che ha sofferto di più per non essere capito dal mondo, vivendo solo dell’amore di un pubblico, che non sa che per nascondere la propria anima rimasta pura, l’artista si deve per forza travestire. Peter Gabriel, da leader dei Genesis, cantava con i trampoli e un vestito lungo circondato sul capo da un immenso girasole; Michael Jackson usciva spesso sul palco con gli occhi lucidi, nascosti da un trucco deciso, che dopo l’ultima goccia doveva mettere fuori il mostro, che se per molti rappresenta la paura, per lui era solo la mancanza di colui che ci protegge veramente e si innamora della nostra fragilità.


Bruno Russo

Fonte: Bruno Russo
 

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